L'artista
Maria Cosway, di complessa e straordinaria levatura, eclettica protagonista del collezionismo e della cultura del Grand Tour, non é ancora sufficientemente studiata, attraverso le sue opere. (Per l'attività artistica, G. Barnett, Richard and Maria Cosway: A Biography; with a Foreword by Daphne Foskett, Tiverton 1995; vd. poi il più recente e aggiornato Maria e Richard Cosway, a cura di Tino Gipponi, Umberto Allemandi, Torino 1998).
Merita attenzione il cosiddetto "portafoglio di marocchino rosso", un album manoscritto nel quale Maria aveva presentato in anteprima ai napoleonidi, che si sottoscrissero per sostenere l'impresa editoriale, il progetto di illustrare ad acquaforte i dipinti italiani approdati al Louvre dopo le "estrazioni" bonapartiane, in attesa della sistemazione della Grande Galleria del nativo Musée Napoleon. Wescher segnala che, fin dal quell'anno, la miniaturista, spronata anche da David, venne incaricata di "realizzare le incisioni per una grossa opera in-folio sulla Galleria del Louvre, il cui primo volume, dedicato a una parte dei quadri di scuola italiana, fu stampato nello stesso anno 1802" (P. Wescher, Kunstraub unter Napoleon, Berlino 1976, traduzione italiana, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Torino 1988, pp. 93-94.).
Ogni fascicolo avrebbe dovuto contenere alcune tavole con le incisioni acquerellate o in nero dei dipinti, tutte di mano di Maria, secondo la tecnica acquisita sulla scorta del metodo del Rosaspina, e una loro breve descrizione (M. Marubbi, Maria Cosway: il profilo intellettuale dalle sue memorie, in Maria e Richard Cosway, pp.69-102.) Dopo aver visitato in compagnia di Fesh la scuola d'arte allestita nello stabilimento di Francesco Piranesi, figlio del celebre Giambattista, Maria, contrariata dagli scarsi risultati e dai secondi fini per i quali tale istituto era stato creato, decise di incidere lei stessa tutte le acqueforti. Allo stesso modo ritoccò i colori ad acquerello, poiché non soddisfatta del lavoro dei pittori.
Attraverso questi lavori possiamo farci un’idea dell'assetto espositivo della Galerie in quel momento di grande affluenza d'opere d'arte, italiane e non, in quanto cristallizza un sistema di allestimento che poi subì ulteriori modifiche dovute anche al rientro di alcune opere nei rispettivi Paesi. Il "portafoglio" riproduce in alcuni casi una sola opera per foglio, in altri un insieme di dipinti, di varie dimensioni, tutti numerati ed accompagnati da una breve notizia storica, che riporta, oltre al nome dell'autore e al titolo dell'opera, anche per esempio cenni relativi al trasporto su tela del dipinto.
Vi compaiono opere di Raffaello e Correggio, per i quali Maria nutriva una vera e propria venerazione, poi dipinti di Giulio Romano, Tiziano, Parmigianino e Leonardo, ma anche del Procaccini, del Fetti, di Sebastiano del Piombo, Pietro da Cortona, Veronese, Peruzzi, Reni, Guercino, Mantegna e Del Frate. La Cosway riprodusse però anche opere di pittori stranieri che avevano lavorato in Italia, e che dalla penisola avevano tratto infinite suggestioni, come Rubens e Van Dyck, del quale è inciso l'arcinoto ritratto del cardinal Bentivoglio di Palazzo Pitti, uno di quei "riflessi italiani" che ora occhieggiano dall'allestimento di Ronconi a Milano. Oltre ad alcuni libri della Biblioteca dei Cosway, si ricorda anche il Diario di Maria, in più volumi, peculiare nella parte redatta a Parigi tra il 1802 e il 1803, poiché documenta le frequentazioni giornaliere dell'artista al Louvre, la sua amicizia con David, i rapporti coi collaboratori di Napoleone.
Di mano della Cosway restano invece a Lodi numerose copie da maestri italiani, o attivi in Italia, come Rubens, eseguite negli anni di studio giovanili durante le sue frequentazioni delle gallerie fiorentine, o nei soggiorni del suo continuo movimentato Grand Tour, come il disegno tratto dall'Ultima Cena di Tintoretto della Scuola Grande di San Rocco. Le stampe, contenute nel portafoglio, che Maria trasse dalle opere venete confluite in parte al Louvre a seguito delle spoliazioni artistiche legate alla Campagna napoleonica d’Italia del 1796, specificamente durante l'anno successivo, quando, dopo le insorgenze antigiacobine, i rivoluzionari francesi, per vendicarsi delle Pasque Veronesi, abbatterono la Serenissima Repubblica di Venezia, che subì il sacco di moltissimi capolavori e venne umiliata con la rimozione del leone di bronzo e dei quattro cavalli che ornavano la facciata della basilica di San Marco. Tra le stampe di ascendenza tizianesca conservate nel portafoglio si può annoverare la Deposizione del 1525, commissionata dai Gonzaga, e opere facenti parte delle collezioni di Luigi XIV, quali la Donna allo specchio, l'Uomo col guanto, la cosiddetta Vierge au lapin, la Cena in Emmaus e l'Uomo con la mano alla cintura. La Cosway, che nutriva per Tiziano una vera e propria venerazione, lamentava il tardato trasporto a Lodi dei dipinti promessile dal Fesh, rimandando allarmata alla presenza di "due piccoli Tiziani (c') hanno bisogno d'esser accomodati" (Arch. Fondazione Cosway Lodi, Maria Cosway al Cardinal Fesh, 26 febbraio 1812, copiata in Diario D.), sarebbe arrivata ad ammirare il Vecellio a tal punto da sostenere la commissione all'amico Canova di un monumento al pittore, che lo scultore morendo non riuscì poi a realizzare.
Tra le incisioni di Maria Cosway anche tre rimandi a Paolo Veronese, due di ridottissime dimensioni, oggi non più accolti nel catalogo del Caliari, mentre il terzo (riconoscibile nonostante la stampa della Cosway sia rovesciata) rappresenta Cristo caduto sotto la croce, opera che figurava già nelle collezioni del Re Sole, eseguita probabilmente dopo l'analogo dipinto di Dresda come quadretto devozionale, ma considerato da alcuni non autografo o di bottega. Più interessanti le acqueforti riproducenti le opere di Tiziano affluite a Parigi con le requisizioni napoleoniche, tra cui l'Incoronazione di spine del 1540 che fino al 1797 si trovava nella Cappella di Santa Corona in Santa Maria delle Grazie a Milano, un Ritratto di incerta attribuzione che la Cosway dà al Vecellio, e la perduta Uccisione di San Pietro martire. Quest'ultima è la più significativa, per il suo valore di testimonianza storica, reminiscenza anche cromatica della straordinaria pala che Tiziano consegnò il 27 aprile del 1530 ai domenicani dei Santi Giovanni e Paolo, dopo aver superato Palma il Vecchio e Pordenone in un concorso indetto dalla Confraternita veneziana di San Pietro martire.
Il quadro fu asportato in seguito alle soppressioni napoleoniche e trasportato a Parigi, ma poi tornò in Italia dopo la caduta di Napoleone – nel frattempo la pittura su tavola era stata trasportata su tela – e venne ricollocato nella chiesa d'origine, questa volta nella cappella del Rosario, poiché sull'altare era stata collocata una copia fedele forse dovuta al Cigoli. La tela del Vecellio venne distrutta durante l'incendio che il 16 agosto del 1867 devastò la cappella del Rosario, nella quale la pala era stata ricoverata ancora per essere restaurata. Dell'opera ci restano le lodi vasariane, che la celebravano come "la più compiuta e la maggiore e la meglio intesa e condotta, che oltre la quale in tutta la sua vita Tiziano abbia fatto ancor mai", ma anche qualche copia antica, come quella ora sull'altare, forse di mano del Loth. L'invenzione tizianesca, che mette in scena i protagonisti dell'eccidio ai margini di un gran bosco oscuro che si staglia cupo sullo sfondo, è stata tramandata graficamente da un'incisione di Martino Rota da Sebenico, autore anche di un'altra desunzione da Tiziano, precisamente dal Tributo della moneta, che avrebbe attirato nel 1625 l'interesse di Van Dyck (la cui versione del soggetto omonimo, tra l'altro esposta in questo momento nella Sala delle Cariatidi a Milano, è un vero e proprio omaggio al Vecellio), quando la tela originale di Tiziano non era visibile perché a quella data si trovava in Spagna.
Per il tema e l'impaginazione iconografica l'Uccisione di San Pietro martire è ricordata anche nel bresciano, per esempio dall'omonima tela attribuita dall'Anelli ad Antonio Gandino, restaurata nel 2002 e custodita nella chiesa di San Pietro da Verona a Castrezzato, e medesimamente da una copia coeva comparsa tra le opere venete messe in asta il 7 giugno 2002 dalla Christie's di New York (precisamente la n. 586, vendita n. 1090), così come da altre tele contemporanee che ne avranno goduto la visione diretta.
Grazie a tutte queste tracce, e a quelle fornite dagli studi a penna di Tiziano conservati a Lille, è forse possibile cogliere analogie compositive fra quell'opera e altre dello stesso Vecellio a cavallo fra anni Venti e Trenta del XVI secolo, quali la Deposizione suddetta, o con la Madonna con Bambino, San Giovannino e Santa Caterina di Londra, dipinta forse per il duca di Mantova, o l'Adorazione dei Pastori per Francesco Maria della Rovere ora a Palazzo Pitti.
L'acquaforte della Cosway conservata nel portafoglio sarebbe su questa scorta un ulteriore anello documentario della ricostruzione della pala tizianesca, la cui dote cromatica permette di avvicinarsi al perduto originale più delle copie antiche, poiché esito di un'operazione sistematica di catalogazione guidata da uno spirito nuovo di inventariazione e mossa da un animo dedito ad uno studio artistico quasi filologico dei maestri rinascimentali.
tratto da:
Vera Bugatti (5 giugno 2004)
Memorie veneto-cinquecentesche dal portafoglio di Maria Cosway
Dal 1781 al 1789 Maria svolse la sua attività di pittrice, esponendo più di quarantadue dipinti alla Royal Accademy, sede deputata per le mostre dei migliori artisti.
Fondazione Maria Cosway Via Paolo Gorini, 6 26900 Lodi C.F. 84511920153